Comprendere il concetto di strumento non è una cosa semplice. Spesso ci si trova imbrigliati in ragionamenti complessi che ci allontanano dalla chiarezza. Nel mondo del teatro la faccenda si complica, soprattutto quando lo pensiamo fuori dal luogo in cui siamo abituati a vederlo, mescolandolo con altre discipline. Nel corso della storia il Teatro ha periodicamente sperimentato la “fuoriuscita” dai luoghi sacri della rappresentazione, andandosi a contaminare con altri mondi, ma in molti casi il concetto di Teatro come strumento è apparso sfumato, mentre in altri è stato molto più evidente.
Quando si parla di Educazione alla Teatralità il termine strumento ha un’importanza fondamentale; fare luce sul suo significato e sulle sue potenzialità ci permette di sgombrare il campo da equivoci e prese di posizioni sterili.
Nell’unione dei termini “Educazione” e “Teatro” è necessario prima di tutto comprendere quale sia il rapporto di strumentalità tra i due. Nel caso dell’Educazione alla Teatralità è certamente il secondo che si mette a servizio del primo, assumendo il ruolo di supporto per il raggiungimento di determinati obiettivi didattici. Va da sé quindi che un laboratorio teatrale vada progettato didatticamente, avendo ben chiaro le finalità e gli obiettivi da raggiungere.
Attraverso questo ragionamento è possibile aprire la discussione sull’importanza della “tecnica” teatrale da fornire, intesa come modalità di lavoro per l’ottenimento di un risultato. Il teatro del Novecento è ricco di tecniche, attraverso le quali l’attore si è sempre esplorato e ha indagato le proprie potenzialità espressive. Oggi infatti sono infinite le proposte di formazione attoriale che hanno come fulcro una tecnica, piuttosto che un’altra, ma questa smania di raggiungere una tecnica precisa e di affermarla come dominante rispetto alle altre ha portato a divisioni concettuali e pratiche molto evidenti, sfumando eccessivamente il concetto di consapevolezza personale. La persona spesso continua ad acquisire tecniche di diverso tipo scordandosi completamente della propria espressività, rischiando quindi di omologarsi.
Questa corsa al “possesso”, al “bagaglio” formativo, molto simile al rapporto che abbiamo con i beni di consumo, rischia di isolarci dal contesto in cui l’incontro nel teatro con le altre persone avviene. La tecnica diventa pericolosa quando determina un fine a se stessa, quando è soltanto “curriculum” o “gioiello da esibire”. Lei stessa si trova snaturata se non integrata nella persona che l’ha acquisita; un po’ come un vestito, comprato solo perché sta bene al manichino, ma che non identifica la nostra persona.
Affinché il teatro sia strumento inclusivo dunque è necessario che esso rappresenti un percorso durante il quale, come direbbe E. Barba, ciascuno “apprenda ad apprendere”, imparando a gestire le proprie dimensioni come persona e ad utilizzare gli strumenti che possiede: in questo modo la tecnica va a supporto della “definizione personale” che è l’unico vero obiettivo del binomio Educazione-Teatro.
Probabilmente la “definizione personale” è il centro non solo dello stato di “rappresentazione” come accade in teatro ma di ogni relazione umana: “definirsi nello spazio tra me e te”. È nell’incontro che troviamo le risposte alla nostra esistenza e il teatro ci permette di porci le giuste domande che ci spingono a cercare.
Quando tutta questa dimensione è all’interno di un contesto educativo abbiamo bisogno di ricordare la strumentalità del teatro, evitando di perderci nel “mettere in mostra” qualcosa che non siamo noi, cercando invece qualcosa che ci permetta di guardare davvero cosa ci abita dentro. Poiché tenere gli occhi aperti è solo questione di palpebre.